CEFALONIA – 8 SETTEMBRE 1943 – SOLTANTO UNA TRAGEDIA O L’INIZIO DI UNA NUOVA ITALIA?

Un grande successo il convegno organizzato dal Rotaract Torino, con la collaborazione del Rotary Torino, dal titolo: “Cefalonia – 8 Settembre 1943 – Soltanto una tragedia o l’inizio di una nuova Italia?”.
Il convegno si è svolto presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino il giorno 21 Aprile 2004. Già prima delle 21 un cospicuo numero di persone gremiva l’ingresso della Fondazione e, poco per volta, siamo arrivati all’incredibile risultato di centottanta partecipanti.
Alle 21.30 in punto il Presidente Rotaract Stefano Cresta ha aperto i lavori con il saluto, giunto via telegramma, del Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi.
Poi l’avvocato Riccardo Rossotto, che da anni si occupa di storia, in particolare della Seconda Guerra Mondiale, ha inquadrato la vicenda Cefalonia. Cefalonia è un’isola greca dove, dopo l’8 Settembre 1943, gli Italiani decisero di non arrendersi ai tedeschi. La battaglia si concluse con la morte, in gran parte per fucilazione, di diecimila soldati italiani. Una pagina di storia tra le più importanti della nostra Patria, troppo spesso dimenticata.
E’ seguito il saluto alla platea del reduce Battista Actis e l’intervento del nipote Alessandro Guido Actis, autore della pubblicazione: “Cefalonia: l’ultima testimonianza”.
Al termine la platea ha ricordato con un applauso l’artista Adriano Tuninetto, purtroppo recentemente scomparso, autore dell’opera “Oltre il muro” riprodotta sulla copertina del libro.
Ultimo relatore Riccardo Perinetto, che ha spiegato cosa è il progetto Polio Plus al quale andranno i fondi ricavati dalla vendita del volume. Il successivo dibattito è stato sicuramente interessante. Tra gli intervenuti ricordiamo il presidente della Associazione Reduci – Sezione Piemonte Donatello Viglongo, il reduce Roffinello e Giacomo De Marchi, studente di Storia.
Il successo del convegno sta soprattutto nell’aver coinvolto i giovani su un tema storico importante, capace di far comprendere il valore della democrazia, della pace, della dignità della persona umana.
Grazie ancora a tutti e, come è solito dire il nostro RD Paolo Furno, “Viva il Rotaract”.

 

Alessandro G.Actis
DZ Torinese

torna su

 

RTC TORINO AL COTTOLENGO

Domenica 19 Dicembre, pochi giorni prima di Natale, il Rotaract Torino di Stefano Cresta ha organizzato un service piccolo ma molto significativo presso il Cottolengo a Torino. Come sapete il Cottolengo è una vera e propria città dentro la città, che ogni giorno accoglie e dà aiuto ai meno fortunati.
Da circa quindici anni il Rotaract Torino organizza una tombolata di Natale presso la Casa S.Giovanni Battista, che ospita un gruppo di sordomute.
A curare il service sin dai suoi inizi Giorgia Ilotte, che ha visto avvicendarsi nell’impresa sempre nuovi volti, man mano che il club cambiava e si ringiovaniva.
Nonostante il periodo stracolmo di impegni siamo riusciti a mettere in piedi una bella squadra affiatata.
Primi ad arrivare il sottoscritto con Stefano Cosma, come da tradizione, subito accolti con gioia dalle suore che dirigono la casa. E poi poco per volta Luca Molinatto, Stefania Rey, Luca Menato, Elena Bianco, Fabio Pozzo sono giunti a dare man forte.
E poi via, tra ambi, terni e quaterne…ogni volta una gioia e una festa per un regalo…Gioia spesso comunicata a gesti, con una stretta di mano, un sorriso…ma gioia sincera e genuina.
Per i regali abbiamo scelto qualcosa di utile nella vita quotidiana della casa: asciugamani, pigiami, bagno-schiuma, profumi…
E alla fine le suore hanno preparato un fantastico brindisi per scambiarsi gli auguri.
Non sono mancati un augurio anche per il nostro Luca Molinatto, neo-laureato in ingegneria e un brindisi al mitico Luca Menato, che davvero si è distinto per le sue doti da “compagnone”.
E così siamo tornati alle nostre case, anche quest’anno, contenti. Contenti di aver fatto felici, con così poco in fondo, le ospiti della casa. E con un proposito in più: passare ogni tanto anche durante l’anno a salutarle e fare loro compagnia.


Alessandro G. Actis
R.C. Torino

torna su

 

ROTARACT TORINO: STORIA ED ATTIVITÀ


La consegna della carta al Rotaract Torino porta la data 18 Marzo 1968: uno dei primi Rotaract Italiani. Sotto la presidenza di Armando Montanari prima e di Pier Luigi Gribaudi nell’anno successivo nasce e muove i primi passi la nostra organizzazione, stringendo da subito importanti contatti con il Rotaract Popular London e con il Rotaract Venezia.
Purtroppo non abbiamo moltissime notizie dell’epoca né sappiamo le difficoltà che incontrarono i primi membri dell’associazione. Quello che sicuramente sappiamo è di aver raccolto, ben trentacinque anni dopo, un club solido ed importante, capace ancora oggi di appassionare i giovani.
E’ innegabile che negli ultimi anni anche il nostro club ha avuto momenti di difficoltà, dovuti alla forte crisi dell’associazionismo giovanile in Italia ed in Europa.
Questo ha inevitabilmente portato alla necessità di voltare pagina ed iniziare un processo di rinnovamento, guidato da Alessandro Actis e da Stefano Cresta negli anni passati.
Il primo uno studente di Medicina del 1980, quindi capace di portare innovazione e vigore al club, il secondo laureato in Giurisprudenza e oggi avvocato, quindi capace di portare la formalità e l’equilibrio necessari. Con il loro aiuto siamo riusciti ad affrontare il ricambio generazionale, che a tutt’oggi mette a dura prova molti clubs. Non dobbiamo però fermarci. E’ indispensabile continuare nell’opera di allargamento di club ed è per questo che abbiamo scelto un direttivo esclusivamente formato dai più giovani per l’anno sociale 2005/2006, sotto la guida di Marco Bodo.
Avvicinarsi ai giovani e proporre loro gli ideali del Rotaract è il compito che ci attende.
Riscoprire quegli ideali con cui è nata la nostra associazione è a nostro parere la chiave per il successo e per smentire definitivamente le voci che ancora oggi circolano di un Rotaract “capace solo di organizzare cene” o di un Rotaract come “status symbol”.

Tra le attività intraprese negli ultimi anni segnaliamo:

  • Attenzione a tutte le attività distrettuali e ritrovato equilibrio con il Distretto 2030 ed il suo staff. Partecipazione a tutti i service distrettuali ed alla loro organizzazione.
  • Service al Cottolengo di Torino. Da circa dieci anni per Natale il nostro club organizza una tombolata presso la casa S.Giuseppe del Cottolengo, che ospita una trentina di sordomute. Abbiamo mantenuto ed ampliato il service, con il proposito di passare a far loro compagnia anche durante l’anno e non solo in occasione del Natale (organizza il service l’avvocato Giorgia Ilotte)
  • Cefalonia: l’ultima testimonianza. Consapevoli che essere rotaractiani significa anche fare importanti attività culturali, abbiamo pubblicato un libro con la storia del sottotenente Battista Actis, uno dei trentasette ufficiali superstiti all’Eccidio di Cefalonia – Seconda Guerra Mondiale. Il successo della iniziativa è dimostrato dall’apprezzamento giunto via telegramma del Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi
  • Organizzazione di convegni relativi al tema Cefalonia in città ed in provincia
  • Ristampa e donazione del libro su Cefalonia ad alcune Scuole Superiori ed alla Associazione Nazionale Divisione Acqui – Sezione Piemonte (con la collaborazione del Consiglio Regionale del Piemonte: on.le Lido Riba e dott.Marco Bodo)
  • Rapporti con gli altri club incentivati da cene a tema e feste.

Per informazioni sul nostro club e per contatti:
Stefano Cresta: s.cresta@studionebiolovietti.it
Alessandro Actis: actale@inwind.it
Marco Bodo: marcobodo@libero.it

 

 

Un cordiale saluto,
Il Direttivo Rotaract Torino
Rotaract Torino, since 1968

torna su

 

IL RACCONTO DI BATTISTA ACTIS...

"...uno dei trentasette ufficiali superstiti alla fucilazione presso la "Casetta Rossa" in Cefalonia"

Il 10 giugno 1940 io sono partito da Torino. Nonna Lina mi ha accompagnato alla fermata del tram numero dieci e sono andato alla caserma Montegrappa.
Di lì siamo stati trasferiti a Chieri poi a Mondovì: circa quattro mesi di esercitazioni e poi partenza per l’Albania. Io appartenevo alla 121° compagnia marconisti. Tanti miei colleghi avevano avuto l’esenzione dal richiamo perché non avevano la qualifica di “radiotelegrafisti”: i “radiotelegrafisti” infatti erano considerati indispensabili alla guerra.
Dopo lo sbarco a Durazzo mi sono trasferito a Tirana, dove c’era un ufficio telegrafico militare.
Conoscevo bene gli apparati celeri del telegrafo, così sono stato adibito al servizio telegrafico celere tra l’Italia e Brindisi. Ho abbandonato la mia compagnia e mi sono trasferito all’ufficio telegrafico civile di Tirana. Intanto ero venuto a conoscenza di una disposizione: chi apparteneva alle poste e telegrafi poteva fare domanda di passaggio alla posta militare. A me conveniva fare questa domanda perché al momento ero solo Caporal Maggiore, mentre sarei divenuto Sottotente Ufficiale.
Ora, a Tirana l’ufficio era tranquillo. Avevo la mia brandina accanto all’ufficio e il governo albanese mi dava, ricordo, 500 Lek al mese, con i quali potevo comprarmi da mangiare.Approvata la mia domanda sono stato nominato Sottotenente. Avrei dovuto raggiungere prima Valona e poi Cefalonia.

Così sono partito da Tirana con mezzi di fortuna - un viaggio davvero pericoloso per me che non so nemmeno nuotare! - alla volta di Atene. Perché Atene?
Perché lì c’era la mia compagnia di marconisti che doveva sbrigare le pratiche. Ad Atene trovai al comando della compagnia un amico, un mio compagno di scuola di Chivasso. Finalmente fui destinato direttamente a Cefalonia. La cosa in realtà andò un po’ per le lunghe perché i telegrafisti albanesi non volevano lasciarmi andare, dicendo che ero indispensabile a Tirana. Ricordo ancora che a Tirana i telegrafi non avevano apparato scrivente, avevano solo l’elettrocalamita. Io ero bravo a ricevere ad udito, ma come lo sapevano fare gli albanesi…io non ho mai visto nessuno!
Dunque sbarcai prima nell’isola di Santa Maura, stranamente soggetta quasi ogni giorno a piccole scosse di terremoto, e poi a Cefalonia.

 

Era l’agosto del 1943.
Non mi posso lamentare delle prime settimane trascorse a Cefalonia. Mi diedero una camera insieme al mio collega Ticò Calmo. Certo, poco per volta sentivamo addensarsi le nubi della guerra…. Un giorno è venuto all’ufficio telegrafico uno strano personaggio: un generale tedesco, un filatelico. Si è rivolto a noi per avere dei francobolli e noi lo abbiamo servito gentilmente, come si faceva con tutti del resto. Gli abbiamo fatto vedere questo, quell’altro…Se ne intendeva di francobolli ed era contento della nostra disponibilità. Come per una premonizione ci aveva detto che se avessimo avuto dei problemi con i tedeschi di fare il suo nome. Io e il mio collega, figurati, avevamo trent’anni…
«Chissà cosa vuole questo! Pensa un po’ che bisogno avremo di lui!» pensammo. Ci disse il suo nome, nome tedesco che dimenticai dopo cinque minuti!
L’otto settembre 1943 Calmo ed io abbiamo accompagnato il comandante della posta militare numero due all’imbarco navi perché doveva rientrare in Italia. Bisognava passare di fronte al comando tedesco lungo un viale enorme, in Argostoli. Noi marciavamo sulla destra e sulla sinistra c’era il comando tedesco.
Il soldato di guardia, appena ci vide da lontano, fece un saluto militare davvero impressionante, convinto.
«Guarda che saluto di’... Fossimo noi manco lo avremmo guardato in faccia!» pensammo subito. Comunque siamo andati al porto e poi siamo tornati indietro. Erano circa le diciotto. Tornando indietro passammo di nuovo davanti al soldato tedesco. Nemmeno un saluto.
Pensai subito che doveva essere successo qualcosa. Non è possibile che quello ci salutasse prima con tutti gli onori e ora…E quel qualcosa era l’Armistizio Badoglio. Come comportarsi con i tedeschi? Lì a Cefalonia c’erano pochi tedeschi, mentre la nostra divisione era forte di undicimila unità. Ovviamente i tedeschi con l’armistizio chiesero subito al Comando Italiano di consegnare le armi. Ritenendoci noi italiani più forti nume-ricamente decidemmo di prendere tempo.
Ci fu una discussione di circa una settimana se cedere o non cedere le armi. Il generale Gandin fece un referendum per sentire l’opinione dei soldati in proposito.
La nostra paura era che, cedendo le armi, saremmo stati alla mercè dei tedeschi. Anch’io votai, come del resto tutti gli altri, per non cedere le armi.
Io subito mi trasferii in un campo tattico al di fuori della città, con caverne dove ci si poteva riparare. I tedeschi avevano l’aviazione. Noi non avevamo nemmeno un aereo. Qualche aereo inglese o americano prima veniva a girare sopra l’isola. Da quel momento nessun aereo alleato si fece vedere e ci lasciarono soli.
Noi si sperava in un loro aiuto ma nessuno venne.

 

Sbarcò la divisone di Alpenjager, la più agguerrita, già famosa per la sua crudeltà nei confronti dei vinti. In una settimana fummo sopraffatti. Un giorno mi trovai con il generale Gandin sul monte Risocuzulo. Mi diedero una rivoltella e mi condussero con loro sul monte. I tedeschi ci precedettero nel lanciare l’offensiva prendendoci di sorpresa.
Io ero con il generale e con altri ufficiali. Tutti incitavano: «Vai a rincuorare quel gruppo», «Coraggio, battersi per l’Italia!». Ad un certo punto mi alzai e dissi: «Signor Generale, se stiamo qui ancora un minuto ci faranno tutti prigionieri, perché i tedeschi sono davanti a noi a cinquanta metri» Lui ordinò la ritirata.
Tutti corsero a montare sulle autocarrette. Gli Stukas continuavano a volarci sopra come uccellacci. Cosa mi è preso non lo so, ma non volli andare giù per la strada con le auto per paura che ci bombardassero. Decisi di scappare a piedi da solo. I tedeschi erano ovunque. Fui veloce come il vento, da un terrapieno all’altro, finchè arrivai su una radura. Era tutto scoperto e gli aerei sorvolavano l’isola. Allora strappai un cespuglio. Appena vedevo l’aereo mi coprivo con il cespuglio.
Così attraversai la zona. Ero solo ma ricordavo che il nostro comando era vicino ad un torrentello. Scorsi il greto di un torrente e pensai di seguirlo: fortunatamente arrivai al comando.
«Sei vivo, sei ancora qui? Ti avevamo dato per disperso!». Una mattina mi sono recato con altri colleghi al Comando Tattico per portare dei sacchi di posta. Appena arrivati al Comando un aereo ha incominciato a sganciare delle bombe proprio in quella zona. Noi ci siamo subito buttati per terra cercando di ripararci con i sacchi postali.
Fortunatamente sono stato colpito da una scheggia solamente ad un braccio, ma il sacco era completamente perforato. Certo senza quella protezione di fortuna sarei rimasto ferito molto più seriamente!
La guerra comunque non durò più a lungo. Non c’era niente da fare se non cercare rifugio. Con gli Stukas non ci si poteva muovere. I tedeschi continuavano a lanciare volantini con su scritto pressappoco:
“Arrendetevi o non rivedrete mai più la patria”. E così i tedeschi hanno vinto. Ci hanno radunato tutti quanti e ci hanno ufficialmente fatto consegnare le armi su un tavolo. Resa incondizionata. Anche io ho consegnato la mia pistola. Poi ci hanno fatto salire sulle autocarrette e ci hanno portato in città, ad Argostoli.
Era il 22 di settembre. Il giorno 23 è venuto il generale Gandin. Noi eravamo radunati in un grosso stanzone del comando e Gandin ci ha salutato uno per uno.
Poi ci fu detto di preparare gli zaini. Il giorno dopo avremmo dovuto presentarci ad un interrogatorio. Quella sera ci siamo divisi un po’ di viveri, chi aveva del formaggio, chi un po’ di frutta…convinti di andare prigionieri. Il 24 mattina ci svegliarono presto: era ora di andare.
«Andiamo allora…ci faranno prigionieri…pazienza…».
Sono salito sulla prima autocarretta con lo stato maggiore della divisione. Eravamo ammassati in quindici. C’erano anche il colonnello Fioretti, il cappellano don Formato e l’interprete ufficiale della divisione. Lungo la strada la popolazione locale gridava: “Scappate! Scappate finchè potete!”. Noi pensavamo: «Cosa scappiamo? Dove scappiamo?
Perché dovremmo?». Sapevano già gli abitanti di Cefalonia…Sapevano cosa sarebbe accaduto. Ci portarono a punta San Teodoro, fuori città. Arrivò un soldato tedesco ad aprire un grosso cancello di ferro. Poi si avvicinò all’interprete
e tentò di strappargli da tracolla una cartella con dei documenti. Lui si oppose e il soldato gli gridò qualcosa che noi non capimmo, ma che era più o meno: “Cosa te ne frega della tua cartella se tanto tra un po’ ti fuciliamo?”.
C’era una villetta rossa, la famosa “casetta rossa” e tutto intorno un muro di cinta. Davanti al muro dieci soldati con la baionetta in canna.

Avanti quattro!” gridò uno di loro. Fu lì che l’interprete ci tradusse la frase che il soldato all’ingresso gli aveva detto.
«E fu lì che iniziò l’orribile carneficina dei nostri ragazzi, quattro per volta, trucidati dai soldati tedeschi»

Io e il mio collega eravamo nella prima autocarretta, come ti ho detto. Nel frattempo continuavano ad arrivare altre autocarrette e noi ci spostammo in un angolo,
in modo da essere sempre gli ultimi. Intanto don Formato era riuscito ad avere una specie di tavolo con un registro, dove chi voleva poteva lasciare le sue ultime volontà per iscritto. Si potevano anche lasciare oggetti e orologi, che ovviamente i tedeschi avrebbero preso. Il colonnello Fioretti prese il suo orologio d’oro e lo buttò a terra, rompendolo, pur di non farlo avere ai tedeschi. I primi uomini si lasciarono quasi trascinare, rassegnati. Noi potevamo sentire le scariche, ma non vedere. Man mano che arrivavano le autocarrette si ripeteva sempre la stessa scena.
“Ave Maria, Padre nostro, salvaci tu…”.
Io pensavo a che fine stavo facendo. Cosa c’entravo io in tutto quello? Uno della posta…Pensavo fosse un tradimento da vigliacco mettersi a protestare, spiegare che ero della posta… Ricordo come se fosse oggi un capitano buttato per terra con la immagine di Santa Rita da Cascia a implorare la grazia. “Chi si prenderà cura dei miei figli?”. Niente. Lo hanno preso e trascinato via più in fretta degli altri. E tutti noi guardavamo sgomenti. Ad un certo punto arrivò la notizia che gli altoatesini avrebbero avuto salva la vita.

Io intanto avevo scritto un biglietto per nonna Lina, salutandola e dicendole di farsi una nuova vita senza di me. Scrissi anche il mio nome e cognome e misi poi in tasca il biglietto, pensando che almeno avrebbero saputo chi ero quando mi avrebbero riesumato. Nascosi la fede in un calcinaccio del muro di cinta della villetta. Ormai eravamo in pochi. Era circa mezzogiorno e l’ “operazione” andava avanti dalle sette del mattino. Il mio collega di nome Calmo, che sapeva qualche parola di tedesco e che era del Tarvisio, si informò se poteva essere messo con gli Altoatesini. Il caporale che comandava la guardia si allontanò un momento per informarsi da un tenente tedesco, seduto un po’ più in là con la testa tra le mani. Si vede che lo spettacolo non andava bene neanche a lui.
A un certo punto dei soldati vennero verso di noi. Chiesi subito al mio collega se aveva un pezzo di carta. “Facciamo finta di scrivere a casa, così prendiamo tempo”
“Ma io ho già scritto” “ Ma anch’io ho scritto ma riscriviamolo, magari accade qualcosa” I soldati si avvicinarono e ci presero per il braccio per trascinarci via.
Io protestai e afferrai il braccio del mio amico che si stava facendo trascinare via. Alla fine i soldati tedeschi se ne andarono a cercare altri due.
Così siamo ancora rimasti lì un attimo.
E’ bastato quell’attimo che è tornato il caporale di guardia dicendo a Calmo che poteva andare con gli altoatesini.
Avesse il mio collega detto qualcosa, un saluto…Niente: scappò via come se io non fossi esistito. Mi ha preso una rabbia tale…Lo avevo praticamente trattenuto e salvato e ora lui se ne andava.
«Se va lui vado anch’io. In fin dei conti siamo uguali!» Ho attraversato il cordone di quelli che ci tenevano fermi lì e sono andato dal tenente e ho cercato di spiegargli. Io ero della posta. Alla posta c’era stato un generale tedesco che aveva detto di fare il suo nome ci fossimo trovati in difficoltà…Il tenente non diceva una parola finchè fece un gesto come dire: “Togliti dai piedi!”. Allora mi trovai in mezzo tra quelli che dovevano fucilare e gli altoatesini.
Decisi di andare dalla parte degli altoatesini. Lì c’era un sergente dell’esercito tedesco che parlava italiano, Antonio Vaccina. Gli dissi: “Meno male che ci sei tu che parli italiano! Cerca di spiegare al tenente che sono della posta…!”
”Di dove sei tu?”
”Sono di Torino”
”Ma no! E’ grave, è grave, è grave!”
Mi prese i documenti e li strappò. Poi mi strappò i gradi dalla divisa.
Intanto il caporale che faceva la guardia alle fucilazioni si era accorto dei miei movimenti. Venne lì davanti a me e al sergente tedesco. Si piantò lì davanti diritto, imponente, col petto in fuori.
TU? TRENTO?
Io sono rimasto zitto, chissà che faccia che avevo…Ho guardato negli occhi il sergente tedesco. Lui rimase lì titubante un momento, poi disse:
JA DAS IST AUS TRENTO” (“SI’, QUESTO E’ DI TRENTO”).
Il caporale rimase lì interdetto con un sorriso beffardo sulle labbra, ma non ha potuto o voluto ribellarsi e se ne è andato. Per il momento ero salvo.
Sono rimasto con gli altoatesini. Ma il problema era che io ero piccolissimo di statura in confronto a tutti gli altri. Allora decisi di stare seduto su un pietrone. Intanto le esecuzioni continuavano, finchè, ad un certo punto, arrivò la notizia che era arrivata la grazia per i pochi rimasti. Poi con una macchina da scrivere registrarono i nomi di chi
era rimasto e avrebbe avuto salva la vita.
Silenzio! Avete salva la vita purchè combattiate con l’esercito tedesco, contro i nemici della Germania nazista, sotto qualsiasi grado. E ricordatevi: anche contro il governo Badoglio!
Accettate voi?”
Si sentii un brusio e un vociare di sconcerto.
Io non mi sono mosso dal mio pietrone. In quel momento non ho più potuto trattenere le lacrime. Allora è arrivato il caporale di prima: “Su, su! Coraggio! Siamo amici adesso”
Mi ha offerto una sigaretta. “Sì, sì”, risposi, ma non accettai la sigaretta. Ormai era l’una del pomeriggio. Ci portarono poi via e, alla sera, ci condussero al comando. Un maresciallo è arrivato con una damigiana di vino per darci da bere. Io non ho bevuto.
Alcuni si lamentavano di aver perso coperte e vestiti. Il sergente tedesco si è fermato e a gran voce ha detto: “Siate felici di essere vivi e non pensate alla roba”.

E così siamo rimasti ancora a Cefalonia. Dormivano per terra in uno stanzone. Io avevo raccolto una grossa foglia di palma e la usavo come un materasso.
La domenica le suore venivano e ci portavano in una chiesetta vicina per la messa, aiutandoci anche con provviste e viveri. Un giorno i tedeschi ci hanno fatto attraversare l’isola e ci hanno trasferito a Samos, sul lato opposto, in previsione dell’imbarco. Le navi attraccavano a Samos per non finire sulle mine.
Molte erano già saltate in aria. A Samos sono andato all’ufficio postale e mi hanno dato una cameretta con altri. Una mattina mi sono seduto sui gradini di una chiesetta a pensare. A un certo punto da una casa vicina uscì un bambino, tutto timoroso. Venne verso di me piano piano. Aveva in mano due fazzolettini, uno a destra e uno a sinistra. Me li porse: contenevano delle mandorle e della farina di meliga. Pensava non avessi da mangiare. Io non accettai e lo ringraziai.
Ma l’episodio mi fece felice.

Un giorno di ottobre ci imbarcarono sul ponte superiore di una nave. Sulla stessa nave dovevano mettere dei prigionieri. Io stavo guardando il molo. Un soldato tedesco arrivò davanti a questi prigionieri con un pentolone fumante con una minestra. “Chi collabora con i tedeschi venga dalla parte del bidone fumante, chi non aderisce dall’altro lato!”. C’è stato un momento che i prigionieri erano disorientati. Poi uno andò verso il bidone e tutti lo seguirono. Ora, questo solo per dire che non si tratta della nostra volontà. A volte sei costretto a fare quello che puoi e non quello che vuoi.
Comunque la nave è salpata. Siamo giunti a Patrasso dove ci hanno aggregato ad una compagnia di camicie nere. Di lì ci hanno portati ad Atene. Eravamo liberi di andare in giro, bastava tornare la sera. Ci hanno messi addirittura all’Hotel Metropol. L’ufficiale tedesco aveva un elenco in ordine alfabetico. Io ero il primo e mi diede la camera
numero uno, senza tenere conto dei gradi. Entrai nella stanza: un lusso…! Era la camera di rappresentanza, con
un letto a baldacchino, un bagno di marmo, pareti di seta…Poi comunque decisi con gli altri di lasciare il posto al colonnello, il più vecchio e andai in una camerata. Al mattino venivano le cameriere e molti colleghi fecero, diciamo così, amicizia con loro…!
Mangiavamo alla mensa degli ufficiali tedeschi. All’arrivo dei prigionieri inglesi ho assistito a una scena terribile. Ero nel viale principale di Atene. Un gruppo di prigionieri scortati da soldati tedeschi andavano di corsa, con i tedeschi dietro. Chi si fermava era fucilato…Pensai alla fine di essere ancora fortunato!
Finalmente organizzarono il rientro, ma non si sapeva bene come. Abbiamo fatto un giro verso l’Europa dell’Est, siamo passati da Belgrado, quindi siamo stati trasferiti a Munsingen, in bassa Baviera. Lì hanno dato l’incarico ad un tedesco di dirigere lo smistamento uomini.
Mi mandarono alla posta e fu lì che ritrovai il mio collega Ticò. In ufficio c’erano due ragazze. Una sera ci hanno invitato a mangiare lo strudel a casa loro…L’occasione c’era. Il mio amico era scapolo e si buttò subito. Io non ho approfittato, anche se sarebbe stato facile. Comunque avevo la mia camera con una stufa e un attendente.
Intanto avevo fatto amicizia con un professore molto colto, io in confronto a lui non ero niente e lo rispettavo moltissimo. Un mattino, dopo una notte di nevicata, stavo camminando in un sentiero praticamente nascosto tra due muri di neve e ghiaccio. Dalla parte contraria stava avanzando un giovane vestito da soldato nazista.
Davanti a me camminava invece Ticò. Appena lo vide Ticò si scansò per lasciarlo passare.
Io non mi mossi. Mi venne una rabbia…«Sono qui che rischio la vita per colpa dei tedeschi e questo marmocchio mi si para davanti?!». Lui si parò davanti a me. Sono stato lì un momento poi gli ho mollato due schiaffoni a mano piena.
«Mi sono rovinato» ho pensato. Come per incanto, come nelle fiabe, da dietro questi mucchi di neve si sono alzate tante teste di tedeschi e tutti mi hanno battuto le mani. Fortunatamente non ci furono conseguenze. Il soldato si è preso i due schiaffi e io non lo ho più visto. Abbiamo passato l’inverno lì, poi siamo scesi in Italia a primavera con
le quattro divisioni. Siamo stati un po’ in giro per l’Italia poi ci hanno portati a Caselle.
Con la ritirata dei tedeschi anche noi ci siamo ritirati. Se avessi voluto disertare avrei potuto, me lo hanno anche proposto, ma non ho accettato. Non ho accettato perché Lina e mio fratello lavoravano alle poste e non volevo risultasse che avevo disertato. Anche per loro ci potevano forse essere conseguenze. Una mattina nonna Lina mi comunicò via telegrafo a Caselle che mio papà mi avvisava di andare a casa subito. Doveva parlarmi. Allora mi sono vestito in borghese e sono partito per Torino. Era la sera del 24 aprile. Il 25 aprile sappiamo cosa c’è stato. Io ero a casa. Non ho più saputo niente invece di Ticò. Non è tornato a casa.
Sono andato a cercarlo al cimitero, ho cercato notizie…niente.
Tra l’altro proprio il 25 aprile cercai di avvisare Ticò di scappare. Decisi di andare all’ufficio centrale delle poste. Lina non volle lasciar-mi andare da solo nonostante fosse incinta (nei mesi prima l’avevo vista durante le licenze). Abbiamo fatto tutto corso Giulio Cesare con le camicie nere in ritirata. Credo non ci abbiano sparato solo perché
hanno visto Lina incinta. All’ufficio andai dal direttore pregandolo che mi lasciasse parlare con Caselle. Lui mi diede dell’incosciente a portare in giro la moglie in quelle condizioni e non mi diede il permesso di comunicare con Caselle. Tagliammo la corda e tornammo a casa. Comunque Ticò è sparito. Gli ho anche scritto a casa dopo alcuni mesi ma i parenti mi dissero che non ne avevano più saputo nulla. Probabilmente fu ucciso dai partigiani, ma certo senza alcun motivo. Dopo un mese circa dal 25 aprile hanno fatto l’epurazione ed è stato riconosciuto che non avevo responsabilità nella mia vicenda. Così fui assunto di nuovo alle poste. E oggi sono ancora qui a raccontare questa storia a novanta anni, pensando a quanto sia difficile fare questa traversata, quella della vita intendo.

Ecco ora un breve racconto della vita di Battista Actis.
Battista Actis è nato a Verolengo (Torino) il 20 giugno 1913. Ha passato la sua infanzia a Gaglianico, Biella, dove suo padre aveva affittato la cascina “Pralino” dai conti Rosazza.
Intorno ai dieci anni si è trasferito a Torrazza Piemonte dove il padre aveva fondato una società per la costruzione di mattoni, ma il periodo di crisi economica ne decretò il fallimento. Ha frequentato la quarta ginnasio a Chivasso, ma a causa del trasferimento dell’istituto a Torino, ha rinunciato a proseguire gli studi.
Con la Licenza Media Inferiore ha partecipato ad un concorso indetto dalle Poste e Telegrafi per essere assunto come “radiotelegrafista”. Ha quindi imparato l’alfabeto Morse e gli apparati celeri Hugues e Baudot (stampanti). Superato questo concorso è stato assunto a Torino alle Poste, dove ha conosciuto Carolina Nicolotti, con la quale si è sposato il 2 ottobre 1938.
“Io non avevo ancora la fidanzata. Una sera uscendo dall’ufficio ho visto Carolina che prendeva il tram numero 10 in direzione Crocetta.
Io dovevo invece prendere il 10 in direzione opposta, Barriera di Milano. Allora ho deciso di attraversare la strada e andare da lei.
«Dove va signorina?»
«Verso la Crocetta»
«Anche io» - dissi, ovviamente con una bugia! - «se vuole perché non ci avviamo a piedi visto che il tram non arriva?»
E così abbiamo iniziato la nostra conoscenza” Dopo esser stato dichiarato “rivedibile” per ben due volte per “insufficienza toracica”, l’esercito lo ha chiamato nella 121° compagnia marconisti nel 1940.
Il 5 luglio 1945 è nato il figlio Gianpiero, ora medico all’Ospedale Oftalmico di Torino.
Battista Actis ha passato il resto della sua vita a Torino, trascorrendo spesso i fine settimana in campagna, ad Azeglio, paese di origine di Carolina.
Il 16 dicembre 1980 è nato suo nipote, Alessandro, ora studente di Medicina.
Oggi ha novant’anni.

 

torna su